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28 Aprile 2021

Roberto Carcangiu: “raccontiamo ai giovani la quotidianità e i valori reali di un mestiere”

Tra i primi a scagliarsi contro gli chef e spadellatori in tv ci fu probabilmente Carlo Petrini. Sul tema è tornato di recente lo chef Philippe Léveillé in un’intervista rilasciata a Il Gusto, il nuovo hub digitale che coinvolge diverse testate tra cui La Repubblica, dal titolo piuttosto eloquente: Basta con gli chef divi, la rivoluzione è essere normali. L’intervista fa comprendere bene la necessità di riportare i cuochi in cucina a confronto con una quotidianità della concretezza.

Sulla stessa lunghezza d’onda e dunque in perfetta sintonia si trova la posizione del direttore didattico di Congusto Gourmet Institute, Roberto Carcangiu, che da tempo segnala una certa deriva cui è sottoposto il settore della ristorazione.
Il cuoco moderno – riflette Carcangiu - ha una funzione non solo gastronomica ma soprattutto etica vista l’importanza del cibo per l’essere umano ed è l’arte della medietà decantata da Socrate il filo che dovrebbe usare per dare gioia ai suoi clienti e denaro alla sua azienda”.
Diversamente, spiega il direttore: “Sembra che per buona parte di noi non ci sia ragione di esistere se non veniamo menzionati, taggati, twittati, in realtà meglio avere un ristorante semivuoto ma famoso e far dell’altro (così si guadagna di più) che avere un ristorante pieno e di buon livello dove devo sempre essere lì ad accogliere i miei cari clienti”.

Quanto è importante la comunicazione nel mondo dei cuochi?

Sono assolutamente d’accordo – spiega Carcangiu, direttore del corso per cuoco professionista di Congusto - nel dire che la cucina deve essere comunicata, raccontata, in un certo senso ricordata, ma mi sembra che si corra davvero il rischio di, passatemi il termine “bruciarla”. L’impressione in certi momenti e che se ne parli molto di più di ciò che in realtà si faccia o meglio di ciò che il mercato è disposto a prendere o pagare, con un’aggravante, la necessità in un contesto di questo tipo di stupire a tutti i costi per farsi notare o anche solo esserci. Questo porta tutti, specialmente i giovani e chi non ha una sorta di “crosta” professionale, a rincorrere l’isola che non c’è dedicandosi quindi a tutto ma non alla propria capacità professionale nel senso pieno del termine. Gli appassionati attori che vincono le varie gare sul mercato televisivo vengono chiamati “chef” vengono osannati e lanciati nel mercato come meteore e come tali si comportano. Fanno un bel botto e spariscono.”

Il settore dell’alta formazione professionale come può intervenire su questi temi?

Mi piacerebbe – prosegue lo chef - che i cuochi un po’ più avanti con gli anni e l’esperienza incontrassero i giovani e cercassero di trasmettere loro non la ricetta “giusta” ma un modo di guardare il mestiere e, di conseguenza, la vita che sia sostenibile sia a chi lo fa che a chi ne fruisce. Che raccontassero della loro umiltà, che non è lavorare 15 ore al giorno sottopagato, ma cercare di fare la cosa giusta per tutti sempre in equilibrio fra le esigenze di ognuno. Per non fare nella quotidianità quella che definisco la fine del lardo di colonnata. Ovvero fino a che lo conoscevano in pochi era un gran prodotto, successivamente attraverso Slow Food se ne è parlato talmente tanto, se ne è venduto talmente tanto (sia vero che falso) che nel giro di pochi anni è sparito dai nostri menù e dalla nostra voglia di usarlo, rimandandolo nell’oblio. E, in questa società, se non ti si vede non esisti e quindi metaforicamente muori”.

A cura della redazione

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